Lotto No. 553


Santi di Tito


Santi di Tito - Dipinti antichi

(Sansepolcro 1536 –1602 Firenze)
Ritratto di un uomo della famiglia Passerini con il piccolo figlio,
olio su tavola, cm 115 x 82,5, con cornice

a tergo timbro impresso a fuoco con l'arme della famiglia Passerini e l'iscrizione C.o A.o P.i / D.o P.i.

Provenienza:
collezione privata europea.

Siamo grati a Carlo Falciani per aver confermato l'attribuzione. Ringraziamo inoltre Nadia Bastogi per aver a sua volta confermato l'attribuzione ed averci aiutato a catalogare il dipinto.

Il dipinto si qualifica come un doppio ritratto familiare, raffigurando un uomo con il suo figlioletto maschio. L’opera, il cui stile e la cui alta qualità di esecuzione permettono di attribuire senza dubbio al pittore fiorentino Santi di Tito, assume un peculiare interesse anche per gli aspetti legati all’iconografia e alla committenza, quest’ultima da ricondurre alla famiglia Passerini, come documenta il marchio con l’arme sul retro della tavola.

I due personaggi sono ritratti in piedi, a tre quarti di figura, inquadrati con un taglio ravvicinato che ne mette in risalto l'imponente e vivace presenza fisica; l’uomo è colto in posizione frontale, con lo sguardo rivolto allo spettatore, mentre stringe con una mano una lettera e con l’altra tiene a sé il figlio, raffigurato di tre quarti ma con il volto girato verso il riguardante e la bocca semiaperta, mentre mostra il frutto che ha in mano. Le figure sono poste in un interno delineato da alcuni elementi architettonici e di arredo che indicano una sobria ma aulica ambientazione toscana. Anche gli abiti dei personaggi denotano il loro elevato rango sociale. La camicia di seta rossa dell’uomo, luminosa e cangiante, coperta da un’ampia sopravveste foderata di pelliccia e ornata sulle maniche da alamari, accresce la maestosità della sua presenza e ne ostenta con magniloquenza la nobiltà; il bimbo indossa un’ungherina di lucido raso giallo dorato, una vestina lunga e scampanata riservata ai più piccoli; aperta sul davanti e anch’essa allacciata con preziosi alamari, è arricchita sulla schiena da due lunghe “code” di stoffa che avevano la funzione di permettere alle balie di reggere i piccoli e di tenerli a freno. Essa indica che l’età del bimbo debba porsi non oltre i tre/quattro anni. Entrambi hanno la bianca gorgiera che incornicia il volto con il motivo a rouches, ancora non troppo rigide e larghe come diventeranno nell’abbigliamento seicentesco.

L’opera si inserisce agevolmente nel corpus dei ritratti di Santi di Tito, rappresentando senza dubbio uno degli esempi conservatisi di maggior qualità. L’artista, originario di Sansepolcro ma formatosi a Firenze in rapporto con la scuola di San Marco, con Agnolo Bronzino e Baccio Bandinelli, ebbe un giovanile soggiorno a Roma dove fu in stretto contatto con la bottega di Taddeo Zuccari, con il giovane fratello Federico e il Barocci, con i quali lavorò in Vaticano. Tornato a Firenze nel 1564, dalla fine degli anni sessanta seppe imprimere una decisa svolta antimanieristica alla pittura fiorentina, con il recupero di una normalità rappresentativa ed una aderenza alla realtà naturale in linea con i nuovi valori controriformistici di decoro, di verosimiglianza e di comunicazione dei sentimenti. Nonostante l’artista sia noto soprattutto per i suoi dipinti religiosi, quale iniziatore e caposcuola della ‘riforma’ della pittura sacra fiorentina, le fonti e i documenti ci testimoniano come anche la produzione ritrattistica fosse centrale nella sua attività. Il Baldinucci, infatti, nella biografia dell’artista, ci informa come egli avesse “gran genio a’ ritratti” (Cfr. Baldinucci, III, p. 37) e ne avesse fatta una delle attività principali della bottega, impiegandovi sovente anche gli allievi per le parti secondarie e riservandosi l’esecuzione delle teste e delle mani. Anche in essa egli seppe tradurre questa moderna etica religiosa e allargò la committenza affiancando alle auliche effigi di corte, la galleria di personaggi di numerose famiglie nobili e borghesi toscane. Interpretando con nuovo spirito di accostante naturalezza gli illustri modelli fiorentini del Bronzino, che aveva raffigurato la granduchessa Eleonora con i piccoli figli, Santi diede vita a un rinnovato tipo di ritratto familiare, dedicando inedita attenzione anche ai bambini. Superata ogni algida ufficialità ed ogni idealizzazione manierista, ancora presenti nella contemporanea ritrattistica di Alessandro Allori, i personaggi acquistano, come in questo caso, connotazioni fisionomiche più realistiche, vivacità di gesti ed espressioni, rendendo manifesta l’affettuosa relazione familiare e intrattenendo un intimo dialogo con lo spettatore. Fra gli esempi conservatisi di questo genere un utile confronto si può istituire con il dipinto già in collezione Koelliker che raffigura una Gentildonna con la piccola figlia, databile verso la metà degli anni settanta, con quello raffigurante un Gonfaloniere di casa Minerbetti con il figlio, con il Ritratto della famiglia di un cavaliere di Santo Stefano, entrambi passati sul mercato, o con i due ritratti dei coniugi Frescobaldi con i figli, eseguiti alla fine del secolo con la collaborazione del figlio Tiberio che proseguì l’attività del padre. Nel ritratto Koelliker vediamo un’analoga impostazione delle figure con la stessa importanza data al gioco delle mani, alla variata inclinazione delle teste e allo scarto leggermente laterale dello sguardo dei bimbi, che danno alla scena l’effetto di un’istantanea, mantenendo, al contempo, un’attenzione accurata alla resa degli abiti, dei gioielli e degli accessori, che connota sempre i ritratti dell’artista.

Tipica di Santi è la struttura compositiva dell’opera, con le figure frontali rappresentate per tre quarti di altezza e gli elementi che connotano lo sfondo: a destra un pilastro in pietra serena dalla base rialzata e modanata, contro cui è posto il tavolo, raffigurato di spigolo, a “forare” illusionisticamente lo spazio, e coperto da un panno rosaceo, sul quale si appoggia il personaggio; in alto a sinistra il drappeggio annodato di una tenda del medesimo colore, bordata d’oro, che spicca rispetto alle tonalità neutre della parete. Tale schema, ripetuto in molti ritratti, interpreta con uno spirito più cordiale i modelli della ritrattistica ufficiale di corte, che ha un illustre esempio nella “serie aulica” degli Uffizi con i personaggi della famiglia Medici (ed in particolare nei due ritratti di Ferdinando I e Cristina di Lorena eseguiti da Scipione Pulzone nel 1590). Lo ritroviamo ad esempio nel ritratto del Tito di Caterina de’ Pazzi, del 1583, in quello della Giovane nobildonna di collezione privata e, dagli anni novanta del Seicento, nei ritratti in collaborazione col figlio Tiberio come quelli dei piccoli figli del Granduca Ferdinando I o quello della Nobildonna fiorentina incinta col figlioletto, agli Uffizi.

Il Baldinucci ricorda anche come il Tito “possedendo una istraordinaria sicurezza nel disegno” conducesse i ritratti “con gran facilità somigliantissimi dal vivo” (cfr. Baldinucci, II, p. 540) ed è quanto ritroviamo nella caratterizzazione delle teste della nostra tavola, sicuramente abbozzate o disegnate davanti al modello, in cui il sicuro impianto disegnativo fissa i tratti in volumi di luminosa armonia conferendo nobiltà alle figure senza togliere la loro naturale e individuale esistenza nel tempo, la peculiarità fisionomica. Alla calma bonaria e alla serena sicurezza non scevra da responsabilità dell’uomo, enfatizzata dalle luci che mettono in risalto l’ampiezza della fronte dall’incipiente calvizie, solcata da alcuni corrugamenti, gli occhi chiari, leggermente diversi, la cui penetrazione è sottolineata dal sopracciglio, la carnagione un po’ rubizza e la piccola bocca carnosa incorniciata da barba e baffi fulvi, si contrappone il visetto intenso e più irregolare del bimbo, dalla pelle bianca e dagli stessi colori del padre, con la fronte ampia coperta dai capelli spiumati composti nel ciuffetto centrale, le sopracciglia chiare che quasi scompaiono e l’orecchio prominente; egli è colto in un’espressione di sorridente vivacità e mostra una naturalezza quale Santi di Tito aveva sperimentato in tanti disegni con studi di teste di fanciulli, ora conservati agli Uffizi, che ritraevano dal vivo i propri figli e garzoni di bottega in vari scorci, mostrando un’analoga sensibilità luministica e un’affettuosa presa diretta dell’infanzia nella realtà quotidiana. La stessa che caratterizzai i diversi ritratti di bambini, fra cui quelli della piccola Lucrezia Gaddi e del fratellino Sinibaldo, eseguiti alla fine degli anni settanta. Per la capacità di caratterizzazione fisionomica dell’uomo possiamo confrontare il dipinto oltre che con i ritratti, con i realistici volti dei committenti inseriti in molte pale d’altare come il compianto di Cristo dell’Accademia di Firenze, dove compare il donatore spagnolo Ernando Sastri, o il dipinto con la Sacra Famiglia, angeli e santi, passato sul mercato.

Tipiche del Titi, quasi una cifra, sono le mani delle figure, carnose e semplificate, realisticamente paffute e quasi abbozzate quelle del bimbo, del tutto diverse dalle più rigide e affusolate stilizzazioni di eco michelangiolesca dell’Allori e degli epigono del manierismo.

A Santi di Tito riconduce senz’altro l’esecuzione pittorica e la peculiare attenzione alla luce naturale. Quest’ultima, proveniente da sinistra, crea sulle stoffe vibranti variazioni di tono, come sulle maniche dell’uomo, riflessi che esaltano la preziosità e la lucentezza dei materiali, sottolinea il bianco inamidato dei colletti, scivola sui volti a definirne i tratti e i volumi, l’intensità delle pupille, e permea l’ambiente in modo tale che la testa del personaggio si stagli per la metà sinistra sul fondo scuro e per l’altra metà sia circonfusa da una penombra più chiara; quest’ultimo accorgimento, che ha l’effetto di evidenziare la testa, conferire ad essa una particolare aura e dare maggiore profondità al dipinto, è utilizzato dal Tito in tutti i suoi ritratti. L’esecuzione alterna parti più riposate e smaltate, con sottili gradazioni di tono e penombre leggere, come nella parte destra del volto del bimbo, ancora memore della pittura di ‘valori’ del Bronzino, ad una franchezza di pennellata fatta di impasti più morbidi e caldi nei toni naturali del colore, pittoricamente abbreviata in certe zone come i capelli e le orecchie, risparmiate sulla preparazione bruna con una tecnica non ignara della pittura veneta, capace di suggerire con pochi tocchi di luce l’effetto del pelo lucido della pelliccia o la preziosità dei bottoni. Da questo punto di vista, rispetto ad altri ritratti del Tito da datarsi tra l’ottavo e il nono decennio, come il ritratto Koelliker, quello di Caterina de’ Pazzi o quelli dei bimbi Gaddi, qui l’esecuzione appare molto più libera e morbida, in linea con l’evoluzione della pittura dell’artista a partire dalla metà degli anni ottanta, quando egli recepì anche le novità introdotte in ambito fiorentino da giovani allievi quali il Cigoli, il Pagani, il Boscoli. L’opera è quindi collocabile cronologicamente fra la metà degli anni ottanta e i primi anni novanta del Cinquecento, in un periodo costellato di capolavori dalla maggior articolazione compositiva e ricchezza pittorica quali la Crocifissione d Santa Croce, del 1588, la Resurrezione di Lazzaro del duomo di Volterra e la Moltiplicazione dei pani e dei pesci di San Gervasio e Protasio a Firenze, del 1592, la Visione di san Tommaso in San Marco, dell’anno successivo.

L’alta qualità dell’esecuzione della nostra tavola indica l’intervento personale del maestro, diversamente da altri esempi conosciuti dove risulta cospicuo il contributo della bottega.

Fra i ritratti del Tito conosciuti, il nostro è uno dei pochi esempi superstiti di ritratto maschile con bambino, ed è quindi assai interessante anche dal punto di vista iconografico. Se l’abbigliamento palesa l’appartenenza dei membri ad una delle nobili famiglie ruotanti intorno alla corte medicea, la lettera che l’uomo tiene in mano indica il ricevimento di un incarico ufficiale del quale egli si fregia, secondo un modello corrente nella ritrattistica del Cinquecento. Più originale è, invece, la presenza della mela tenuta dal bambino. Mentre le femmine sono solitamente raffigurate con dei fiori, per i maschietti troviamo a volte la presenza di un uccellino, o di un piccolo oggetto, altre di un dolcetto o di un frutto. In questa iconografia si fa certo riferimento alla quotidianità e ad elementi che connotano l’infanzia come il gioco o il cibo ma vi è probabilmente anche una eco dell’iconografia sacra del Bambino Gesù, dove la mela e il cardellino hanno altri significati simbolici. Qui il frutto, maturo solo per metà, può essere interpretato anche come simbolo di una maturità ancora da raggiungere e quale auspicio di futura abbondanza, secondo un significato che si lega solitamente alla raffigurazione della frutta. Anche in questo aspetto, tuttavia, il Tito restituisce sempre il simbolo calandolo nella affettuosa realtà quotidiana.

Quanto all’individuazione dei personaggi ritratti e all’appartenenza collezionistica dell’opera, non essendo nota la sua provenienza originaria, ci soccorre il marchio presente sul verso della tavola. Si tratta di un marchio impresso a fuoco in epoca antica, che indicava l’appartenenza dell’opera ad una collezione. Esso è costituito dall’arme della famiglia entro il cui scudo compaiono, in alto e in basso, delle lettere quali abbreviazioni indicanti presumibilmente i nomi dei proprietari: C.o A.o P.i / D.o P.i. L’arme si può identificare con quella della famiglia Passerini, nel suo ramo fiorentino, il cui stemma appare “d’azzurro, allo scaglione d’argento caricato di tre rose di rosso bottonate del proprio campo” secondo le definizioni araldiche rintracciabili anche nella raccolta Ceramelli Papiani dell’Archivio di Stato di Firenze. Più arduo sciogliere le abbreviazioni dell’iscrizione. La famiglia Passerini, originaria di Cortona e stabilitasi per tempo anche a Firenze diede origine a diversi rami familiari e vantò molti illustri personaggi, sia in ambito religioso, sia politico che letterario. Uno dei suoi membri, Luigi Passerini è noto quale illustre studioso di araldica e di storia delle famiglie fiorentine fra cui quella stessa dei Passerini edita nel 1874. Sulla base delle notizie ricavabili da quest’ultima e da altre fonti documentarie conservate nell’Archivio di Stato di Firenze, e nell’Archivio dell’Opera del Duomo, possiamo fare qualche ipotesi in merito all’identificazione dei nostri personaggi.

Dalla linea di Domenico di Lorenzo podestà di Dicomano (m. 1598), a cui lo stesso Luigi affermava di appartenere, vediamo discendere il figlio Lorenzo, nato nel 1591 (battezzato il 28 gennaio 1591 secondo i registri batt. fiorentini AODF), uomo di cultura che ebbe una famosa pinacoteca rammentata dal Bocchi Cinelli nella sua guida delle bellezze della città di Firenze (1677), amico di artisti quali Lorenzo Lippi e Salvator Rosa. Egli ebbe come figli il Capitano Alessandro (1627-1681), comandante delle milizie medicee e uomo di lettere, e Domenico (1631-1717), abate e letterato burlesco. Potrebbe dunque trattarsi di un marchio seicentesco di questa collezione da sciogliersi con C(apitan)o A(lessandr)o P(asserin)i / D(omenic)o P(asserin)i, quali proprietari di essa. Quanto ai due personaggi ritratti potrebbe trattarsi del nonno Domenico, alla cui carica di podestà alluderebbe la lettera che ha in mano e la ricca ufficialità dell’abbigliamento, e del piccolo figlio Lorenzo, padre dei due. Se così fosse, la data di nascita di quest’ultimo e la sua tenera età al momento del dipinto farebbero datare quest’ultimo tra il 1592 e il 1594. Siamo grati a Nadia Bastogi per aver catalogato il dipinto in oggetto.

15.10.2013 - 18:00

Prezzo realizzato: **
EUR 61.300,-
Stima:
EUR 50.000,- a EUR 70.000,-

Santi di Tito


(Sansepolcro 1536 –1602 Firenze)
Ritratto di un uomo della famiglia Passerini con il piccolo figlio,
olio su tavola, cm 115 x 82,5, con cornice

a tergo timbro impresso a fuoco con l'arme della famiglia Passerini e l'iscrizione C.o A.o P.i / D.o P.i.

Provenienza:
collezione privata europea.

Siamo grati a Carlo Falciani per aver confermato l'attribuzione. Ringraziamo inoltre Nadia Bastogi per aver a sua volta confermato l'attribuzione ed averci aiutato a catalogare il dipinto.

Il dipinto si qualifica come un doppio ritratto familiare, raffigurando un uomo con il suo figlioletto maschio. L’opera, il cui stile e la cui alta qualità di esecuzione permettono di attribuire senza dubbio al pittore fiorentino Santi di Tito, assume un peculiare interesse anche per gli aspetti legati all’iconografia e alla committenza, quest’ultima da ricondurre alla famiglia Passerini, come documenta il marchio con l’arme sul retro della tavola.

I due personaggi sono ritratti in piedi, a tre quarti di figura, inquadrati con un taglio ravvicinato che ne mette in risalto l'imponente e vivace presenza fisica; l’uomo è colto in posizione frontale, con lo sguardo rivolto allo spettatore, mentre stringe con una mano una lettera e con l’altra tiene a sé il figlio, raffigurato di tre quarti ma con il volto girato verso il riguardante e la bocca semiaperta, mentre mostra il frutto che ha in mano. Le figure sono poste in un interno delineato da alcuni elementi architettonici e di arredo che indicano una sobria ma aulica ambientazione toscana. Anche gli abiti dei personaggi denotano il loro elevato rango sociale. La camicia di seta rossa dell’uomo, luminosa e cangiante, coperta da un’ampia sopravveste foderata di pelliccia e ornata sulle maniche da alamari, accresce la maestosità della sua presenza e ne ostenta con magniloquenza la nobiltà; il bimbo indossa un’ungherina di lucido raso giallo dorato, una vestina lunga e scampanata riservata ai più piccoli; aperta sul davanti e anch’essa allacciata con preziosi alamari, è arricchita sulla schiena da due lunghe “code” di stoffa che avevano la funzione di permettere alle balie di reggere i piccoli e di tenerli a freno. Essa indica che l’età del bimbo debba porsi non oltre i tre/quattro anni. Entrambi hanno la bianca gorgiera che incornicia il volto con il motivo a rouches, ancora non troppo rigide e larghe come diventeranno nell’abbigliamento seicentesco.

L’opera si inserisce agevolmente nel corpus dei ritratti di Santi di Tito, rappresentando senza dubbio uno degli esempi conservatisi di maggior qualità. L’artista, originario di Sansepolcro ma formatosi a Firenze in rapporto con la scuola di San Marco, con Agnolo Bronzino e Baccio Bandinelli, ebbe un giovanile soggiorno a Roma dove fu in stretto contatto con la bottega di Taddeo Zuccari, con il giovane fratello Federico e il Barocci, con i quali lavorò in Vaticano. Tornato a Firenze nel 1564, dalla fine degli anni sessanta seppe imprimere una decisa svolta antimanieristica alla pittura fiorentina, con il recupero di una normalità rappresentativa ed una aderenza alla realtà naturale in linea con i nuovi valori controriformistici di decoro, di verosimiglianza e di comunicazione dei sentimenti. Nonostante l’artista sia noto soprattutto per i suoi dipinti religiosi, quale iniziatore e caposcuola della ‘riforma’ della pittura sacra fiorentina, le fonti e i documenti ci testimoniano come anche la produzione ritrattistica fosse centrale nella sua attività. Il Baldinucci, infatti, nella biografia dell’artista, ci informa come egli avesse “gran genio a’ ritratti” (Cfr. Baldinucci, III, p. 37) e ne avesse fatta una delle attività principali della bottega, impiegandovi sovente anche gli allievi per le parti secondarie e riservandosi l’esecuzione delle teste e delle mani. Anche in essa egli seppe tradurre questa moderna etica religiosa e allargò la committenza affiancando alle auliche effigi di corte, la galleria di personaggi di numerose famiglie nobili e borghesi toscane. Interpretando con nuovo spirito di accostante naturalezza gli illustri modelli fiorentini del Bronzino, che aveva raffigurato la granduchessa Eleonora con i piccoli figli, Santi diede vita a un rinnovato tipo di ritratto familiare, dedicando inedita attenzione anche ai bambini. Superata ogni algida ufficialità ed ogni idealizzazione manierista, ancora presenti nella contemporanea ritrattistica di Alessandro Allori, i personaggi acquistano, come in questo caso, connotazioni fisionomiche più realistiche, vivacità di gesti ed espressioni, rendendo manifesta l’affettuosa relazione familiare e intrattenendo un intimo dialogo con lo spettatore. Fra gli esempi conservatisi di questo genere un utile confronto si può istituire con il dipinto già in collezione Koelliker che raffigura una Gentildonna con la piccola figlia, databile verso la metà degli anni settanta, con quello raffigurante un Gonfaloniere di casa Minerbetti con il figlio, con il Ritratto della famiglia di un cavaliere di Santo Stefano, entrambi passati sul mercato, o con i due ritratti dei coniugi Frescobaldi con i figli, eseguiti alla fine del secolo con la collaborazione del figlio Tiberio che proseguì l’attività del padre. Nel ritratto Koelliker vediamo un’analoga impostazione delle figure con la stessa importanza data al gioco delle mani, alla variata inclinazione delle teste e allo scarto leggermente laterale dello sguardo dei bimbi, che danno alla scena l’effetto di un’istantanea, mantenendo, al contempo, un’attenzione accurata alla resa degli abiti, dei gioielli e degli accessori, che connota sempre i ritratti dell’artista.

Tipica di Santi è la struttura compositiva dell’opera, con le figure frontali rappresentate per tre quarti di altezza e gli elementi che connotano lo sfondo: a destra un pilastro in pietra serena dalla base rialzata e modanata, contro cui è posto il tavolo, raffigurato di spigolo, a “forare” illusionisticamente lo spazio, e coperto da un panno rosaceo, sul quale si appoggia il personaggio; in alto a sinistra il drappeggio annodato di una tenda del medesimo colore, bordata d’oro, che spicca rispetto alle tonalità neutre della parete. Tale schema, ripetuto in molti ritratti, interpreta con uno spirito più cordiale i modelli della ritrattistica ufficiale di corte, che ha un illustre esempio nella “serie aulica” degli Uffizi con i personaggi della famiglia Medici (ed in particolare nei due ritratti di Ferdinando I e Cristina di Lorena eseguiti da Scipione Pulzone nel 1590). Lo ritroviamo ad esempio nel ritratto del Tito di Caterina de’ Pazzi, del 1583, in quello della Giovane nobildonna di collezione privata e, dagli anni novanta del Seicento, nei ritratti in collaborazione col figlio Tiberio come quelli dei piccoli figli del Granduca Ferdinando I o quello della Nobildonna fiorentina incinta col figlioletto, agli Uffizi.

Il Baldinucci ricorda anche come il Tito “possedendo una istraordinaria sicurezza nel disegno” conducesse i ritratti “con gran facilità somigliantissimi dal vivo” (cfr. Baldinucci, II, p. 540) ed è quanto ritroviamo nella caratterizzazione delle teste della nostra tavola, sicuramente abbozzate o disegnate davanti al modello, in cui il sicuro impianto disegnativo fissa i tratti in volumi di luminosa armonia conferendo nobiltà alle figure senza togliere la loro naturale e individuale esistenza nel tempo, la peculiarità fisionomica. Alla calma bonaria e alla serena sicurezza non scevra da responsabilità dell’uomo, enfatizzata dalle luci che mettono in risalto l’ampiezza della fronte dall’incipiente calvizie, solcata da alcuni corrugamenti, gli occhi chiari, leggermente diversi, la cui penetrazione è sottolineata dal sopracciglio, la carnagione un po’ rubizza e la piccola bocca carnosa incorniciata da barba e baffi fulvi, si contrappone il visetto intenso e più irregolare del bimbo, dalla pelle bianca e dagli stessi colori del padre, con la fronte ampia coperta dai capelli spiumati composti nel ciuffetto centrale, le sopracciglia chiare che quasi scompaiono e l’orecchio prominente; egli è colto in un’espressione di sorridente vivacità e mostra una naturalezza quale Santi di Tito aveva sperimentato in tanti disegni con studi di teste di fanciulli, ora conservati agli Uffizi, che ritraevano dal vivo i propri figli e garzoni di bottega in vari scorci, mostrando un’analoga sensibilità luministica e un’affettuosa presa diretta dell’infanzia nella realtà quotidiana. La stessa che caratterizzai i diversi ritratti di bambini, fra cui quelli della piccola Lucrezia Gaddi e del fratellino Sinibaldo, eseguiti alla fine degli anni settanta. Per la capacità di caratterizzazione fisionomica dell’uomo possiamo confrontare il dipinto oltre che con i ritratti, con i realistici volti dei committenti inseriti in molte pale d’altare come il compianto di Cristo dell’Accademia di Firenze, dove compare il donatore spagnolo Ernando Sastri, o il dipinto con la Sacra Famiglia, angeli e santi, passato sul mercato.

Tipiche del Titi, quasi una cifra, sono le mani delle figure, carnose e semplificate, realisticamente paffute e quasi abbozzate quelle del bimbo, del tutto diverse dalle più rigide e affusolate stilizzazioni di eco michelangiolesca dell’Allori e degli epigono del manierismo.

A Santi di Tito riconduce senz’altro l’esecuzione pittorica e la peculiare attenzione alla luce naturale. Quest’ultima, proveniente da sinistra, crea sulle stoffe vibranti variazioni di tono, come sulle maniche dell’uomo, riflessi che esaltano la preziosità e la lucentezza dei materiali, sottolinea il bianco inamidato dei colletti, scivola sui volti a definirne i tratti e i volumi, l’intensità delle pupille, e permea l’ambiente in modo tale che la testa del personaggio si stagli per la metà sinistra sul fondo scuro e per l’altra metà sia circonfusa da una penombra più chiara; quest’ultimo accorgimento, che ha l’effetto di evidenziare la testa, conferire ad essa una particolare aura e dare maggiore profondità al dipinto, è utilizzato dal Tito in tutti i suoi ritratti. L’esecuzione alterna parti più riposate e smaltate, con sottili gradazioni di tono e penombre leggere, come nella parte destra del volto del bimbo, ancora memore della pittura di ‘valori’ del Bronzino, ad una franchezza di pennellata fatta di impasti più morbidi e caldi nei toni naturali del colore, pittoricamente abbreviata in certe zone come i capelli e le orecchie, risparmiate sulla preparazione bruna con una tecnica non ignara della pittura veneta, capace di suggerire con pochi tocchi di luce l’effetto del pelo lucido della pelliccia o la preziosità dei bottoni. Da questo punto di vista, rispetto ad altri ritratti del Tito da datarsi tra l’ottavo e il nono decennio, come il ritratto Koelliker, quello di Caterina de’ Pazzi o quelli dei bimbi Gaddi, qui l’esecuzione appare molto più libera e morbida, in linea con l’evoluzione della pittura dell’artista a partire dalla metà degli anni ottanta, quando egli recepì anche le novità introdotte in ambito fiorentino da giovani allievi quali il Cigoli, il Pagani, il Boscoli. L’opera è quindi collocabile cronologicamente fra la metà degli anni ottanta e i primi anni novanta del Cinquecento, in un periodo costellato di capolavori dalla maggior articolazione compositiva e ricchezza pittorica quali la Crocifissione d Santa Croce, del 1588, la Resurrezione di Lazzaro del duomo di Volterra e la Moltiplicazione dei pani e dei pesci di San Gervasio e Protasio a Firenze, del 1592, la Visione di san Tommaso in San Marco, dell’anno successivo.

L’alta qualità dell’esecuzione della nostra tavola indica l’intervento personale del maestro, diversamente da altri esempi conosciuti dove risulta cospicuo il contributo della bottega.

Fra i ritratti del Tito conosciuti, il nostro è uno dei pochi esempi superstiti di ritratto maschile con bambino, ed è quindi assai interessante anche dal punto di vista iconografico. Se l’abbigliamento palesa l’appartenenza dei membri ad una delle nobili famiglie ruotanti intorno alla corte medicea, la lettera che l’uomo tiene in mano indica il ricevimento di un incarico ufficiale del quale egli si fregia, secondo un modello corrente nella ritrattistica del Cinquecento. Più originale è, invece, la presenza della mela tenuta dal bambino. Mentre le femmine sono solitamente raffigurate con dei fiori, per i maschietti troviamo a volte la presenza di un uccellino, o di un piccolo oggetto, altre di un dolcetto o di un frutto. In questa iconografia si fa certo riferimento alla quotidianità e ad elementi che connotano l’infanzia come il gioco o il cibo ma vi è probabilmente anche una eco dell’iconografia sacra del Bambino Gesù, dove la mela e il cardellino hanno altri significati simbolici. Qui il frutto, maturo solo per metà, può essere interpretato anche come simbolo di una maturità ancora da raggiungere e quale auspicio di futura abbondanza, secondo un significato che si lega solitamente alla raffigurazione della frutta. Anche in questo aspetto, tuttavia, il Tito restituisce sempre il simbolo calandolo nella affettuosa realtà quotidiana.

Quanto all’individuazione dei personaggi ritratti e all’appartenenza collezionistica dell’opera, non essendo nota la sua provenienza originaria, ci soccorre il marchio presente sul verso della tavola. Si tratta di un marchio impresso a fuoco in epoca antica, che indicava l’appartenenza dell’opera ad una collezione. Esso è costituito dall’arme della famiglia entro il cui scudo compaiono, in alto e in basso, delle lettere quali abbreviazioni indicanti presumibilmente i nomi dei proprietari: C.o A.o P.i / D.o P.i. L’arme si può identificare con quella della famiglia Passerini, nel suo ramo fiorentino, il cui stemma appare “d’azzurro, allo scaglione d’argento caricato di tre rose di rosso bottonate del proprio campo” secondo le definizioni araldiche rintracciabili anche nella raccolta Ceramelli Papiani dell’Archivio di Stato di Firenze. Più arduo sciogliere le abbreviazioni dell’iscrizione. La famiglia Passerini, originaria di Cortona e stabilitasi per tempo anche a Firenze diede origine a diversi rami familiari e vantò molti illustri personaggi, sia in ambito religioso, sia politico che letterario. Uno dei suoi membri, Luigi Passerini è noto quale illustre studioso di araldica e di storia delle famiglie fiorentine fra cui quella stessa dei Passerini edita nel 1874. Sulla base delle notizie ricavabili da quest’ultima e da altre fonti documentarie conservate nell’Archivio di Stato di Firenze, e nell’Archivio dell’Opera del Duomo, possiamo fare qualche ipotesi in merito all’identificazione dei nostri personaggi.

Dalla linea di Domenico di Lorenzo podestà di Dicomano (m. 1598), a cui lo stesso Luigi affermava di appartenere, vediamo discendere il figlio Lorenzo, nato nel 1591 (battezzato il 28 gennaio 1591 secondo i registri batt. fiorentini AODF), uomo di cultura che ebbe una famosa pinacoteca rammentata dal Bocchi Cinelli nella sua guida delle bellezze della città di Firenze (1677), amico di artisti quali Lorenzo Lippi e Salvator Rosa. Egli ebbe come figli il Capitano Alessandro (1627-1681), comandante delle milizie medicee e uomo di lettere, e Domenico (1631-1717), abate e letterato burlesco. Potrebbe dunque trattarsi di un marchio seicentesco di questa collezione da sciogliersi con C(apitan)o A(lessandr)o P(asserin)i / D(omenic)o P(asserin)i, quali proprietari di essa. Quanto ai due personaggi ritratti potrebbe trattarsi del nonno Domenico, alla cui carica di podestà alluderebbe la lettera che ha in mano e la ricca ufficialità dell’abbigliamento, e del piccolo figlio Lorenzo, padre dei due. Se così fosse, la data di nascita di quest’ultimo e la sua tenera età al momento del dipinto farebbero datare quest’ultimo tra il 1592 e il 1594. Siamo grati a Nadia Bastogi per aver catalogato il dipinto in oggetto.


Hotline dell'acquirente lun-ven: 10.00 - 17.00
old.masters@dorotheum.at

+43 1 515 60 403
Asta: Dipinti antichi
Tipo d'asta: Asta in sala
Data: 15.10.2013 - 18:00
Luogo dell'asta: Vienna | Palais Dorotheum
Esposizione: 05.10. - 15.10.2013


** Prezzo d’acquisto comprensivo dei diritti d’asta acquirente e IVA

Non è più possibile effettuare un ordine di acquisto su Internet. L'asta è in preparazione o è già stata eseguita.

Perché registrarsi su myDOROTHEUM?

La registrazione gratuita a myDOROTHEUM consente di usufruire delle seguenti funzioni:

Catalogo Notifiche non appena un nuovo catalogo d'asta è online.
Promemoria d'asta Promemoria due giorni prima dell'inizio dell'asta.
Offerte online Fate offerte per i vostri pezzi preferiti e per nuovi capolavori!
Servizio di ricerca Stai cercando un artista o un marchio specifico? Salvate la vostra ricerca e sarete informati automaticamente non appena verranno messi all'asta!